I nuovi emigranti: giovani con diploma o laurea che in Italia non hanno futuro

1

aeroplanoSe ne vanno i figli nati negli anni Ottanta. Se ne va la generazione concepita durante il secondo boom economico. Il tempo in cui l’Italia si è riscattata dal suo passato di povertà. Il decennio ricordato per la Coppa del mondo in Spagna, la vittoria sul terrorismo, la fine della Guerra fredda. Partono soprattutto loro. Quelli che adesso hanno più di vent’anni e non superano i trenta. E’ l’eredità peggiore, la più odiosa che ci lasciano dieci anni quasi ininterrotti di Berlusconi, di liberismo sfrenato, di globalizzazione senza regole. La nuova emigrazione. Storie contemporanee di valigie e delusione. «Stavo inviando l’ultimo di una quantità incredibile di curriculum all’ennesima azienda grafica che non si è mai presa la briga di rispondere. In quel preciso momento», racconta Marco Benaia, 27 anni, diploma di perito in arti grafiche e cameriere precario a Berlino, «ho deciso che fosse meglio andarmene».

Non è la fuga dei cervelli. Dei ricercatori che fuori confine inseguono la loro alta qualifica. Questo è l’esodo dei laureati e dei diplomati che all’estero vanno a fare i muratori, i baristi, i lavapiatti. Laureati e diplomati che nella spietata gerarchia dei lavori di fortuna spesso vengono all’ultimo posto dopo turchi, arabi e cinesi. Non si parte per realizzare il proprio curriculum. Vanno per necessità. Per disperazione. Perché dopo anni di disoccupazione o di contratti saltuari a 300 euro al mese, non c’è alternativa. E non si fanno i bagagli soltanto nei paesi del Sud. In tanti partono dal Nord. Marco Benaia è cresciuto a Saronno, provincia di Varese, la città del premier Mario Monti. La terra dove la Lega ha costruito il suo consenso contro gli stranieri.

Immaginate se adesso in Germania e in Svizzera, le principali mete dell’esodo, qualche Umberto Bossi locale giudicasse i nostri emigranti un pericolo per le tradizioni, un’invasione da respingere.

Ecco le storie. Raccolte con le stesse domande che soltanto nel 2009 “l’Espresso” aveva rivolto ai ragazzi africani che affollavano Agadez e la rotta del Sahara verso l’Europa. Ai coetanei che nel 2006 subivano le violenze dei caporali nei campi di pomodoro in Puglia. Ai sopravvissuti che nel 2005 si calpestavano nel centro di detenzione a Lampedusa. Il vento è girato. Non soltanto per Grecia e Spagna. Anche in Italia. E la sconfitta più amara è che ora a quelle identiche domande rispondono i nostri figli. Perché sei partito? Cosa stavi facendo nel momento in cui hai deciso di andartene? Cosa ti aspetti?

E’ un’emigrazione meno misera e drammatica di quella affrontata dai loro nonni. Come Arialdo Bulfon, partito da Peonis in Friuli nel 1931 a 11 anni. Prima l’Algeria, con il padre muratore. E dopo la guerra la Svizzera, stuccatore a Turbenthal. O come Salvatore Cucinelli salito in Belgio da Gagliano del Capo, Salento. E morto a 30 anni nell’incendio della miniera di Marcinelle, l’8 agosto 1956. Adesso si progetta l’uscita con un occhio a Facebook. Il passaparola corre tra i post degli amici. Sulle pagine degli espatriati, come il blog “Italiani in Germania”. E sui siti specializzati in offerte di lavoro all’estero. Il viaggio non dura più nottate insonni in treno. Ci sono le compagnie low cost. Poche decine di euro e due ore di volo. Se finalmente considerassimo l’Unione europea un unico Stato, forse non dovremmo definirla emigrazione. Sarebbe semplice mobilità interna. Nessuno negli Usa chiamerebbe emigrante un ragazzo dell’Arizona traslocato in New Jersey. Gli Stati Uniti però parlano la stessa lingua, sventolano la stessa bandiera, sono una nazione. Noi no. Un italiano finito in Germania partecipa al prodotto interno lordo tedesco. Sottrae le sue conoscenze, il diploma, la laurea all’Italia che ha speso risorse per la sua formazione. E l’ha lasciato senza futuro. Sono le conseguenze delle cifre diffuse in queste settimane. I numeri aggiornati della recessione. Un milione e mezzo di posti di lavoro persi tra gli under 35 negli ultimi cinque anni. Un tasso di disoccupazione del 35 per cento tra i giovani fino ai 24 anni. L’aumento degli italiani iscritti all’Agenzia del lavoro tedesca: dai 189 mila del 2011 ai quasi 233 mila del maggio 2012. Un record in termini assoluti che mette la presenza italiana in Germania davanti a Grecia, Portogallo e Spagna.

La vita dell’emigrante nell’epoca di Facebook sembra più facile rispetto a sessant’anni fa. Internet aiuta a tenere i contatti, a non perdersi. Ma dentro, nell’animo, lo strappo è altrettanto forte. Espatriare per necessità significa come allora archiviare le proprie ambizioni, i propri luoghi, gli affetti. Saronno è a mezz’ora dal centro di Milano. L’ex triangolo industriale. Da qui non si era mai partiti. Nemmeno dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale. C’erano le fabbriche da riaprire. Il dolciario. Il tessile. La meccanica. Qui gli emigranti una volta si fermavano. Ma peggio della guerra han fatto le delocalizzazioni dell’ultimo decennio. Marco Benaia a Berlino è arrivato nel gennaio 2011. Il papà a Saronno fa l’elettricista. La mamma lavora come colf. La sorella studia scenografia all’Accademia di Brera. «Ho scelto la Germania», racconta Marco, «perché sono sempre stato affascinato dalla storia della seconda metà del ‘900. Ma soprattutto perché a Berlino si respira un’aria di libertà che da altre parti non ho trovato». La casa: «Un appartamento in condivisione con una ragazza spagnola e una tedesca: 250 euro di affitto per una stanza, a due passi dal centro». Aspettative: «Nonostante le difficoltà, da Berlino non ho intenzione di andarmene». Paga: «Nell’ultimo lavoro da cameriere, 1500 euro al mese. La mia prima offerta, proprio come grafico», ricorda, «la ricevo da un ragazzo turco. Colloquio in inglese. Promessa di 500 euro al mese più 50 per ogni lavoro portato a termine. Dopo un mese di decine di lavori portati a termine, non vedo il becco di un quattrino. A parte qualche spicciolo che mi viene dato per mangiare al fast food. E quando lo faccio presente ai miei nuovi amici stranieri, loro non sembrano affatto sorpresi. Lavorare per i turchi? Ahah, ridono, lo sanno tutti che non pagano». Il lavoro successivo di Marco è in un ristorante italiano: «Aiuto cuoco. Mi viene fatto un contratto con tanto di assicurazione medica. Non mi sento realizzato, ma mi ritengo fortunato. E questo mi basta per poter continuare a lavare piatti fino all’inizio dell’estate 2011, quando capisco che le mie conoscenze del tedesco sono abbastanza buone per cercare altro».

E’ questione di settimane, continua: «Trovo quello che fa per me. Un sito Internet appena nato che vende abbigliamento d’alta moda. I miei due capi sono nati nel 1985, come me. Siamo più di quindici, italiani, spagnoli, tedeschi. E sembra che tutto vada per il verso giusto. Fino a quando devo fare i conti con la realtà delle start-up, aziende che tentano di inserirsi nel mercato digitale. Noi eravamo una start-up. Una fredda mattina di dicembre il finanziatore del progetto, che probabilmente aveva il fondoschiena al caldo negli Usa o in Canada, ci fa sapere che non elargirà mai più un solo euro. Una settimana prima di Natale ci ritroviamo disoccupati. Si ricomincia tutto daccapo». Niente lavoro per mesi. E siamo al 2012. «In un giorno solo invio qualcosa come 70 curriculum. Tra i pochi che rispondono c’è un arabo proprietario di una piccola tipografia nel quartiere con il più alto livello di immigrati. Al telefono mi ispira fiducia. Pochi giorni dopo inizio di nuovo a essere me stesso. Grafico in terra straniera, in una tipografia che pubblica un mensile in arabo e tedesco. Dopo quasi due mesi non ho ancora ricevuto una paga e quando lo faccio presente ai miei nuovi amici stranieri, loro non sembrano affatto sorpresi. Lavorare per gli arabi? Ahah, ridono ancora, lo sanno tutti che non pagano. Mi rimanevano poco più di cento euro in tasca. No, non ho avuto il coraggio di chiedere soldi ai miei genitori. Anche loro fanno fatica». Si ricomincia: «Vado a servire ai tavoli di una vera trattoria italiana, gestita da una simpatica famiglia di genovesi. Sfortuna vuole che questa coppia di genovesi, dopo vent’anni, si sia stancata della Germania e presto chiuda il ristorante. In ogni caso non lascerò questa città».

Anche Verena Tonelli, 30 anni, laurea in istituzioni e politiche dei diritti umani, da Saronno è emigrata a Berlino. Fa la barista. Papà architetto. Mamma pensionata. Fratello iscritto a ingegneria. Abita in condivisione: «Come quando ero studentessa a Padova. Ma senza un lavoro ben retribuito e un conto in banca, è complicato dimostrare di poter pagare l’affitto. Per questo ho dovuto cambiare sette case in meno di due anni». Nel bar di Berlino, Verena lavora con un contratto minijob: «400 euro mensili per 10 ore a settimana. La maggior parte di bar e ristoranti», spiega, «preferiscono stipulare questo tipo di contratto, e avere più dipendenti, poiché garantisce poche spese per il datore di lavoro. Al momento della mia scelta di lasciare l’Italia ero laureata da un anno e mezzo e lavoravo come cameriera in un ristorante». Perché Berlino? «La Germania non mi attirava», risponde Verena Tonelli: «Berlino è stata una scelta alla cieca. Non è una città ricca. Ma è ancora la città del possibile. Dove vivere tranquillamente a basse spese, dove si respirano libertà e apertura mentale. La ricerca di un lavoro nel mio campo di studi è passata in secondo piano. Ma questo non mi fa sentire di aver fallito. No, non ho mai pensato di ritornare in Italia». Da Saronno se n’è andato Alessandro Milani, 30 anni, laurea in scienze dei beni culturali e master, assunto per 1500 euro al mese a Nîmes in Francia, in una compagnia di teatro di strada: «Dovrei occuparmi della produzione degli spettacoli. Ma considerate le ristrette economie, mi ritrovo a fare un po’ di tutto. Dalle paghe all’amministrazione».

E come una volta si parte dal Sud. L’8 agosto Angela Iovinelli, 24 anni, è arrivata da Napoli a Londra in vacanza. Con lei il papà, la mamma e il fratello, 16 anni. Cosa succede lo racconta il padre in una lettera a “Repubblica”: «E’ entrata in un Internet point, ha stampato un curriculum e lo ha consegnato alla National Gallery. Il giorno dopo ha sostenuto un colloquio e la sua vacanza si è subito trasformata in lavoro, essendo stata assunta in servizio lunedì 13 agosto dalla multinazionale che gestisce le audioguide. Increduli io e mia moglie non sapevamo se gioire o temere di non vederla più tanto spesso». Altra storia, Flavia Gazineo, 31 anni, di Laino Borgo, Cosenza. Laurea in diagnostica e restauro dei beni culturali. A lungo disoccupata nell’Italia dell’arte. Da gennaio vive a Malta dove per mille auro al mese sta restaurando la cattedrale di San Giovanni alla Valletta.

In questa fuga di giovani i paesi più piccoli, da Nord a Sud, si stanno riducendo a un mondo di soli vecchi. Uno di questi è Gagliano del Capo. Ultimo comune del Salento o primo d’Europa, dipende se lo guardi da terra o dal mare: 5.365 abitanti e altri 1.577 iscritti all’Aire, l’anagrafe degli italiani all’estero. Da gennaio sono espatriati in sette: Austria, Svizzera e Germania. Altri 32 se ne sono andati nel Nord Italia. Quarantasette sono morti. E soltanto 26 sono nati. Saldo demografico negativo anche nel 2011: 11 all’estero, 44 al Nord, 64 morti e 43 nati. E nel 2010: 14 all’estero, 28 al Nord, 44 morti e 35 nati.

Il falso mito del miracolo pugliese a Gagliano e dintorni svanisce con la fine della stagione turistica. Arrigo Colaci, 61 anni, autista di pullman, emigrante rientrato, e la moglie Vittoria, 57 anni, nel giro di pochi anni hanno visto partire tutti e tre i figli. L’ultimo è Zef, 29 anni, laurea in scienze motorie a Urbino nel 2006. E da allora lavori precari: insegnante a progetto nelle elementari, allenatore di calcio, mezza giornata da barista d’estate. Zef ha comprato un biglietto scontato, 95 euro. Volo Brindisi-Malpensa per la sera del 14 settembre. Poi in auto fino a Bellinzona, Svizzera. Un anno fa è emigrata lì con il marito e i figli la sorella Lucia, 30 anni, diplomata in chimica. Il primo ad arrivare in Canton Ticino, cinque anni fa, il fratello Rocco, 23 anni, l’unico in famiglia che non ha finito gli studi. «Mio padre era contrario. Se non studi, gli diceva, non vai da nessuna parte. Invece Rocco è stato il primo a sistemarsi», commenta Zef: «Emigrare è una presa di coscienza volontaria. A maggio ho deciso. Faccio la stagione al bar e vado via. Ti porta a partire la prospettiva di una sicurezza economica. Ma anche previdenziale, ora che per la nostra generazione in Italia la pensione non ci sarà più. No, non lascio nessuna fidanzata. Senza lavoro, chi la mantiene la fidanzata? I miei sono felici che parta. Il mio sogno da bambino era rimanere a Gagliano. E una volta, con una laurea rimanevi. Ma negli ultimi due anni anche chi ha un titolo di studio deve andar fuori». Zef dice che porterà con sé tre album di fotografie: «Le foto mie da piccolo, quelle con gli amici e la famiglia».

A Bellinzona lo aspetta un colloquio per un posto da barista: «Dovrei anche studiare e fare due anni di abilitazione all’insegnamento. Il mio obiettivo è sempre insegnare ginnastica». Altri di Gagliano li hanno presi nei cantieri. Suo fratello Rocco, per esempio. O Fausto Profico, 24 anni, che nel Salento lavorava in un cementificio a 28 euro al giorno, 600 al mese. «In Svizzera si guadagna molto di più», dice Profico, «e lo stipendio è sicuro». Rocco e Fausto fanno gli stuccatori. Lo stesso lavoro di molti emigranti di allora. Quando mezza Italia partiva. Dalla Puglia al Friuli, che ancora non era il ricco Nord-Est. Stuccatori come Arialdo Bulfon, tornato a 40 anni da Berna alla provincia di Udine. Una copia del “Martin Eden” di Jack London e gli arnesi del mestiere chiusi in valigia. Lo riportarono a casa in ambulanza. A sue spese. Giusto in tempo per farlo morire nelle braccia di sua moglie Lina che lo aspettava a Peonis. Un lento addio, mano nella mano. Si era ammalato ai reni, Arialdo Bulfon. E alla Svizzera non serviva più.

Fonte: Espresso

CONDIVIDI