Margin Call, la recensione: meglio mettere i risparmi sotto al materasso

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Di Luca Fabbri

Margin Call fa prendere male, anzi malissimo. Perché racconta un dramma: il nostro. Com’è possibile che, un bel giorno, un manipolo di colletti bianchi in qualche ora mandi in fumo montagne di denaro, spingendo l’economia mondiale in un precipizio da cui ad oggi non è ancora venuta fuori? Chi ha dato il permesso a questi bipedi in Rolex e cravatta, a questi esseri che straparlano di cifre quando in realtà non ne capiscono niente, di metterci in ginocchio, di rovinarci la vita, di massacrare il nostro futuro, di uccidere i sogni dei nostri figli? Vien voglia di metterli al muro, uno dopo l’altro.

Dice: è il capitalismo, bellezza, una ruota che gira, si chiude una porta e si apre un portone, la parabola infinita dell’uomo. Sarà. Ma questo benedetto portone quando decide di riaprirsi? Sicché diventa dura mantenere la calma davanti alle prodezze del gotha della finanza speculativa, efficacemente sciorinate dall’esordiente J.C. Chandor. Che si avvale di un cast bombastico (Kevin SpaceyStanley Tucci,Jeremy Irons e chi più ne ha, più ne metta) per girare, quasi sempre in interni, l’inizio della fine, cioè della recessione.

Per la sua sconfortante attualità Margin Call si lascia guardare volentieri, complice la caratura degli attori. Sennonché il ritmo a tratti stenta e il motore va giù di giri: il picco dell’emozione trasmessa allo spettatore arriva con il solito Tizio che urla “Merda!” davanti ai grafici di un monitor. Altro problema: il regista-sceneggiatore voleva far capire anche ai profani le ragioni del tracollo della società, epurando il frasario dei personaggi dai tecnicismi stile Economist. Intento riuscito, ma solo in parte: che sollievo non sentire nominare mai una volta swap, subprime, hedge fund, cds e altri marchingegni d’alta finanza, da anni sulla bocca di tutti, specie di chi ne ignora il significato. Però allo scorrere dei titoli di coda si ha come la sensazione di non aver compreso al 100% i passaggi della sceneggiatura, che manchi qualcosa, di essersi persi un dettaglio. Il finale poi non soddisfa, sembra come mozzato.

Tutto si svolge a New York. Tira una brutta aria nella sede di una nota banca di investimento. Teste che rotolano di prima mattina, carriere stroncate in cinque minuti, gente che se ne esce in strada con gli scatoloni, roba da far ammattire la CGIL. E’ il caso di Peter, che però prima di lasciare per sempre la società dove lavora da lustri si premura di rivelare a un giovane analista la scoperta: occhio, l’happy hour è finito, siamo seduti su un vulcano perché non facciamo che trafficare con aria fritta, titoli tossici. Il ragazzo verifica i dati e ahiahiahi signora Longari: tutto vero, il businness si fonda su un’equazione sbagliata. I conti non tornano più.

Non resta che comunicarlo a chi di dovere, pregando che il tetto della casa non crolli in testa a chi sta dentro. I boss, preso atto del patatrac, si dividono: c’è quello è disposto a soluzioni drastiche tentando fino alla fine di bluffare e quell’altro che si fa prendere, dopo anni di speculazioni, dal senso della responsabilità.

Comincia la rumba. Che tutto sommato mantiene a galla l’interesse per la storia. Perché, inutile girarci intorno, riguarda tutti noi: dal funerale della Lehman Brothers, cui è ispirato il film, in avanti niente è stato più come prima. Pensare che questi squali, cui si può togliere tutto tranne buonuscita milionaria e stock options, tengono tuttora il mondo per i cosiddetti, come se niente fosse stato, fa venire il sangue amaro. Morale: meglio mettere i risparmi sotto al materasso, ammesso che qualcuno ne abbia ancora.

Voto: 6/7

 

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