Quasi Amici, la recensione

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Di Luca Fabbri

I critici sembrano, bontà loro, aver raggiunto l’unanimità: Quasi Amici è un filmone. Ci adeguiamo anche noi e lo promuoviamo a pieni voti, alle volte a fare i bastian contrari si passa per cretini.
Ne uscissero da queste parti di commedie del genere, strozzati come siamo dal ciarpame che case di produzione e sceneggiatori nostrani rovesciano ogni settimana sul pubblico.

Sia chiaro. Non si tratta di becera esterofilia da provincialotti un po’ presuntuosi, quali in effetti siamo. E’ la realtà. Perché il cinema italiano sembra da qualche tempo essersi ripiegato su se stesso, pigro, autoreferenziale, localista fino alla noia. Pur di sbancare il botteghino, non si osa più. Ci siamo dimenticati – o forse non ce ne frega niente, il che è peggio – come raccontare storie universali, ambiziose, capaci di interessare a qualcuno diverso da noi, di far breccia nel cuore di un tunisino come di un giapponese, in grado di rapire per due ore adulti e bambocci, transessuali, gay o etero, geni e sedicenti tali.

Poi è inutile frignare se non si riesce più a esportare un fico secco. Per forza, qui o va in scena il precario, la camorra, i servizi segreti deviati per definizione, la vacanza tetteculo dei figli di papà e soprattutto dei papà, le storielline da Littizzetto. Fine.

Eppure c’è vita, c’è magia fuori dalla routine di Scampia, di Ostia o di Cortina. Basta guardare alle prodezze di Dris, briccone senegalese da banlieu parigina che finisce – grazie alla sua strafottenza, superiore solo all’ignoranza – per essere assunto come badante da un tetraplegico ricco sfondato. I due non potrebbero essere più agli antipodi: uno delinquente, spaccone, perdigiorno cronico, tagliato con l’accetta; l’altro divoratore d’arte, di teatro, di musica classica, gran senso dello humour, aplomb da vendere. Ma una cosa li accomuna: non hanno più niente da perdere.

Morale: sarà pure un supplizio dover vestire l’invalido e pulirgli il deretano. Ma che meraviglia fare la vita del milionario, la notte andare, insieme, a palla in Maserati beffando la polizia, buttarsi col parapendio, spacciare croste qualsiasi come capolavori d’arte moderna, facendosi beffe degli intenditori modaioli, pronti a fare follie pur di dire al mondo di aver scoperto il Kandinsky del 2000.

La strana coppia finisce per diventare, giorno dopo giorno, come Bibì e Bibò; vuoi vedere che qui ci scappa l’amicizia. Vabbè, questo era prevedibile fin dalla locandina.

Quello che non si poteva immaginare è lo spreco di battute sopra le righe, di sberleffi, di colpi bassi, di scorrettezze varie di cui il film trabocca, senza però – ed è questo il merito della pellicola – scadere nel pecoreccio alla Vanzina.
Si ride come matti, in barba alla morale da bacchettoni, che viene fatta impunemente a pezzi, come quando il tetraplegico si spara, con sommo gusto, un cilone, gentilmente offerto dal senegalese. Ma la commedia non sbraca, rimane in carreggiata e riesce pure a far riflettere sulla fragilità della vita, sui legami umani, sul caso, sull’amore. In due parole: fa scintille.

Ultimo appunto. Chi diavolo sono i signori Omar Sy (il senegalese) e François Cluzet (il tetraplegico)? E Olivier Nakache ed Éric Toledano (i registi-sceneggiatori)? Boh. Appunto. Applausi, davvero. Bene, bravi, bis.

Voto: 8,5

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