Quella casa nel bosco, la recensione: una camminata a rilento nel tunnel della paranoia

Di Luca Fabbri

Che cosa si può dire di Quella casa nel bosco? Mah, forse nulla. Le parole si strozzano in gola, lo shock annebbia la mente. Signori, qui c’è materiale con cui dar lavoro a generazioni di psichiatri. Di questo film si può solo prendere atto allargando le braccia: è un monumento alla inverosimiglianza, pari solo al gusto per la provocazione. Come spettacolo non è certo granché, va detto subito. Non mette paura neanche per sogno, non emoziona, gli effetti speciali annaspano nella mediocrità e, per soprammercato, tutto è tirato un po’ troppo per le lunghe.

Nonostante ciò qualcosa si salva dal naufragio. Perché questo presunto horror alla fine è un’esperienza mistica, un’allucinazione da botteghino, uno sgangheratissimo trip, una camminata a rilento nel tunnel della paranoia. Ma anche nell’autoironia, che impazza in ogni scena e di cui bisognerà pur rendere merito agli autori. Il risultato è devastante. Si esce dal cinema umanamente a pezzi, rintronati come campane, con gli occhi sbarrati. Ci si chiede come sia possibile aver architettato una boiata così gigantesca da suscitare segreto piacere e malcelata ammirazione.

Siccome prima o poi nella vita occorre fare delle scelte, noi alla fine dei conti scegliamo, con qualche sforzo critico, di stringere la mano a Josh Whedon. Ossia il tizio che, avvezzo a spararle grosse per aver dato vita a roba come Buffy o gli Avengers, non pago, ha messo in piedi questa sconvolgente boutade cinematografica, costruita su una sceneggiatura capace di non prendersi mai sul serio, di fregarsene dell’impopolarità e di strappare applausi con la ferocia di certe battute sparate come proiettili. Detto ciò la mente dietro alla Casa nel Bosco accetti un consiglio: si faccia vedere da uno bravo, ne ha bisogno.

All’inizio tutto sa di già visto. La bionda consapevole della propria fortuna tra gli slip, la bruna con l’aria (ma solo quella) più sveglia, il tossicodipendente, il nero e il palestrato dalle mascelle serrate vanno in gita. Dove? Ma in una catapecchia lontana da tutto, in mezzo alla boscaglia avvolta dalla nebbia, che domande.

Presto, fatto, l’amara scoperta: la combriccola è destinata a diventare carne da macello, con cui un’improbabile associazione a delinquere intende placare l’appetito da fanteria degli dei. I quali se ne stanno comodamente nelle viscere della terra, in attesa dello stuzzichino, pronti a scatenare il finimondo, facendo uscire dal sottosuolo ogni nefandezza se non verrà dato loro in pasto ciò che gli spetta. Ovvero, i cinque sfigati di cui sopra. Frattanto lassù parte il centro scommesse semiclandestino: chi ci lascerà le penne per primo?

Per farla breve, non è certo l’incipit il piatto forte della pellicola, né i personaggi dallo spessore della carta velina e nemmeno i discutibili tentativi di spaventare, bensì la sua originalità di fondo, la voglia di lasciare di sasso il pubblico, di vedere fino a che punto si può arrivare a sfotterlo. Perché se chiunque potrà sostenere di aver già assistito a sciocchezze camuffate da horror, nessuno potrà dimenticare di averne vista una così spavaldamente fiera della propria sconclusionatezza. Roba da camicia di forza.

VOTO: 6

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