R. e il suicidio in solitudine. Che razza di società è questa?

Un suicidio di un ragazzo con problemi di droga. Di tragedie come questa sono piene le sezioni “notizie brevi” dei giornali. Relegate in un angolo, ai margini degli altri articoli: dell’intervista al politico o dell’approfondimento sui cani randagi.

Il giornale dedica pochi centimetri del suo spazio, il lettore dedica pochi secondi del suo tempo. E le coscienze, appena sfiorate, rimangono imperturbate. L’orrore, lo sgomento, l’angoscia per la fine di un giovane che nessuno ha provato ad aiutare è perfettamente anestetizzata ed esorcizzata. Basta girare la testa dall’altra parte, esattamente come si fa di fronte ad un gatto spiaccicato in autostrada, e il problema è risolto.

Troppo facile. E disonesto. Come è possibile nessuno si sia accorto di un malessere tanto profondo che cresceva nell’animo di questo ragazzo? Come è possibile nessuno gli abbia teso una mano, che nessuno lo abbia incluso in un gruppo, in un centro sociale, in una comunità di persone?

Un ragazzo in difficoltà completamente abbandonato a se stesso e a suoi sempre più grandi problemi. Ad uccidere R. non è stata la droga ma la solitudine. Il vuoto cosmico che si è creato intorno a lui, l’isolamento totale di un appestato sociale. Escluso all’inizio perché “timido”, escluso poi perché “drogato”, escluso alla fine perché “depresso”.

Gran bella società, gran bella gente quella di Terni, dove l’inclusione spetta solo ai ganzi, a chi riesce a mascherare i problemi e non farli uscire dalle mura della propria abitazione. Bene, bravi, bis.

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